Caso Zambon: l'OMS dovrebbe chiamarlo whistleblower 

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Whistleblowing
Supporto ai segnalanti

Da oggi 15 novembre e per i prossimi due giorni si terrà il Global Evidence-to-Policy (E2P) Summit,  organizzato dall’OMS per condividere le lezioni apprese nella creazione di procedure in questi anni di emergenza COVID-19. 

Eppure, il caso Zambon rende quasi paradossale l’intento del Summit. Francesco Zambon - lo ricordiamo - è l’ormai ex ricercatore dell’organizzazione il cui rapporto sulla risposta del Governo italiano nei primi mesi della pandemia venne ritirato poche ore dopo la sua pubblicazione, ormai 18 mesi fa. Il rapporto aveva come obiettivo proprio quello di fornire un caso studio sui comportamenti raccomandabili agli Stati, alla luce dell’esperienza del primo paese europeo colpito dal virus. 

Zambon, seguendo le procedure interne dell’organizzazione, segnalò i possibili conflitti di interesse collegati alla scelta di ritirare il rapporto e le pressioni ricevute per modificarlo. Come ha documentato ampiamente la trasmissione Report nell’ultimo anno, gli interessi dietro il ritiro appaiono essere più di tipo personale e politico e poco avevano a che fare con la scientificità della ricerca. 

Il caso Zambon lascia aperte diverse criticità 

Su questa vicenda i problemi restano principalmente due: la gestione delle segnalazioni interne da parte dell’OMS e l’indipendenza nei procedimenti. 

Per quanto riguarda la gestione delle segnalazioni, è opportuno ricordare come Zambon abbia sollecitato ripetutamente l’ufficio etico dell’OMS a valutare le pressioni ricevute e le motivazioni dietro il ritiro del report, ma le sue richieste non sono state prese in considerazione se non dopo mesi, quando la posizione lavorativa del segnalante era già compromessa e le condotte segnalate avevano ormai prodotto conseguenze irrecuperabili. 

I danni per l’OMS e, soprattutto, per la collettività dovuti all’inazione dell’organizzazione potrebbero essere incalcolabili. Grave è anche il comportamento tenuto nei confronti del proprio dipendente. Zambon infatti, in base a quanto dichiarato, è stato prima ignorato, poi discriminato e ha subito ritorsioni. Questi comportamenti lo hanno portato alle dimissioni. Peculiare è anche la tutela giuslavoristica per i dipendenti delle organizzazioni delle Nazioni Unite: queste organizzazioni sovranazionali non rientrano infatti in un foro giuridico nazionale ma hanno processi di valutazione delle diatribe attraverso procedimenti interni. Una prima review viene effettuata dall’Ufficio Risorse Umane e un successivo appello passa attraverso il Global Board of Appeal, mentre solo l’eventuale terzo grado di giudizio avviene presso la corte indipendente del Tribunale Internazionale del Lavoro. Francesco Zambon ha richiesto all’OMS la revisione del suo caso e attualmente si trova in fase di appello.  

Questo processo, come si può facilmente intuire, è fortemente influenzato da dinamiche interne e non può certo garantire un livello di indipendenza adeguato ai casi trattati. Sono rarissimi i casi in cui appelli presso questi organi hanno successo, a maggior ragione in casi come questo in cui sono coinvolti anche i vertici della stessa organizzazione. 

Dopo aver contattato l’OMS lo scorso maggio, insieme al Segretariato di Transparency International, Whistleblowing International Network, Government Accountability Project e decine tra le più importanti organizzazioni della società civile attive a tutela dei whistleblower a livello internazionale, e non aver ricevuto alcun riscontro, ancora una volta siamo a chiedere che a Francesco Zambon venga riconosciuto lo status di whistleblower e che il suo caso venga trattato con la tempestività e la prontezza richiesti. Sarebbe poi auspicabile che venissero revisionate le policy interne dell’organizzazione, affinché non si ripresentino casi del genere, in cui venga limitato il diritto di espressione a tutela della salute pubblica. 

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