Finanziamento ai partiti e lobbying: USA e Italia due sistemi a confronto

Nell’estate del 2013, l’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta portò in Consiglio dei Ministri due pilastri per un nuovo rapporto tra impresa e politica: la riforma del finanziamento ai partiti e la regolamentazione del lobbying. Purtroppo, da quella riunione di governo uscì solo il primo dei due provvedimenti, che divenne poi legge.

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Il quasi azzeramento del finanziamento pubblico alla politica ha imposto ai partiti di ragionare su fonti alternative di finanziamento. La più semplice e diffusa consiste nel rivolgersi ai propri eletti e tesserati, ma nell’ambito del finanziamento privato alla politica si trova tanto il piccolo contributo individuale quanto la grande donazione d’impresa.

La legislazione attuale riconosce detrazioni fiscali per le donazioni politiche sia alle persone fisiche che alle persone giuridiche. Al di fuori dei limiti per cui è riconosciuto il vantaggio fiscale, non esistono limiti assoluti nelle donazioni che un soggetto – cittadino o impresa – può effettuare.

Il sistema statunitense

Quando si ragiona di finanziamento privato alla politica il riferimento per antonomasia è agli Stati Uniti. Nella legislazione statunitense esistono limiti alle donazioni che è possibile effettuare da parte di un cittadino. Ancora più rilevante: fino al 2010 era vietato alle società effettuare donazioni dirette. Il cambio è avvenuto quando la Corte suprema ha dichiarato incostituzionale tale divieto, che pur il legislatore aveva previsto.

Nel sistema statunitense di oggi (e di ieri) è possibile trovare molti modi – es. i “SuperPAC” – per aggirare i limiti applicati ai finanziatori della politica. Eppure, i limiti esistono. Nel ciclo elettorale 2017-2018 negli Stati Uniti oltre 1,5 milioni di cittadini hanno fatto donazioni politiche superiori ai 200 dollari, per un valore medio di 2.600 dollari a donatore. Se conteggiassimo anche le donazioni inferiori ai 200 dollari – che non sono tracciate – avremmo un numero superiore di donatori e un valore medio di donazione ancora inferiore.

Negli Stati Uniti si è posta grande attenzione al tema delle donazioni da parte dei lobbisti, soggetti che già hanno precisi obblighi di trasparenza e reporting delle loro attività. In un Paese che considera la facoltà di fare donazioni politiche tutelata alla stregua della libertà di parola, il legislatore dal 2007 ha posto sulle spalle dei lobbisti l’onere di dichiarare le donazioni politiche effettuate.

E in Italia?

Il sistema italiano è lontano da questi standard di trasparenza. Da un lato l’attività di rappresentanza d’interessi non è regolamentata, e gli obblighi di trasparenza sono a macchia di leopardo. Dall’altro la riforma del finanziamento ai partiti, in un Paese che sconta un certo sentimento di “antipolitica”, non ha (ancora) portato a concepire le donazioni alla politica come forma di partecipazione democratica diffusa, e non ha previsto limiti alle donazioni da parte delle imprese.

Questa situazione crea una difficoltà per tutti: per le imprese, chiamate a decidere se e come finanziare; per la politica, che può cadere nella tentazione di accettare donazioni da soggetti inopportuni; per i portatori d’interesse, che potrebbero competere sulla base dei finanziamenti ai candidati anziché sulla forza delle idee portate avanti.

Pensando alla regolamentazione dell’attività di lobbying è necessario ragionare dei limiti da introdurre alle donazioni politiche da parte di lobbisti o rappresentanti d’interessi particolari. Un divieto in tal senso aiuterebbe tutti gli attori in campo a non entrare in pericolosi conflitti d’interesse, specie a ridosso delle campagne elettorali. Con un vantaggio per la qualità del processo di policy-making in Italia.

di Paolo Zanetto. Partner, Cattaneo Zanetto & Co.

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